Stellato e mazziato
Va bene indignarsi, ma non basta. Scegliere i canali di informazione è fondamentale per aprire un dibattito sano e costruttivo. Altrimenti è solo clickbait.
Quando accadono fatti di questo genere, l’occasione è ghiotta per ripostarli, pubblicarli, ricondividerli e portare un po’ di sdegno e click al proprio mulino.
E così, nelle ultime 24 ore, da quando ho ricevuto le prime segnalazioni - così come già avvenne in occasione della non-notizia della bidella napoletana che si faceva 600 km al giorno per raggiungere il posto di lavoro - influencer più o meno influenti hanno ricondiviso il post dello chef stellato che cerca personale per il suo hotel in Trentino.
Proprio per evitare quel clickbait becero, mi ero premurato di mascherare il nome e cognome (sebbene molti innovatori hanno usato ChatGpt per scovarlo, quando sarebbe bastato mettere due righe del testo su Google…)
Dando a Cesare quel che è di Cesare, la prima segnalazione del caso mi è arrivata un paio di giorni fa dal profilo instagram di possibile.it il partito di Civati. O almeno è quella che mi è stata segnalata da Susanna Pedone, la mia editor, prima che ne vedessi circolare altre, tutte successive.
Nel caso qualcuno avesse invece fonti ancor più pregresse fuori dalla mia bolla, sarebbe curioso risalire al primo delatore/trice.
Faccio questa premessa perché è fondamentale a mio avviso dare un senso a queste situazioni, un senso che non si fermi unicamente all’indignazione generale, ma che possa invece aprire un dibattito ampio e un’attenzione più precisa.
L’importanza di non fermarsi all’indignazione
Faccio un esempio: i primi due anni dopo il Covid i giornali si sono dedicati a quella che io chiamo “la Saga degli Imprenditori che Non Trovano” in cui a ripetizione venivano intervistati proprietari di aziende e pseudo tali, in un pianto greco continuo ed invettive mirate al reddito di cittadinanza, colpevole di incollare la gente sui divani anziché accettare le loro offerte di lavoro. Per due anni di fila i giornali hanno dato spazio - totalmente indisturbato - a associazioni di categoria e a osservatori che non osservano proprio nulla ma che in compenso hanno alimentato l’opinione pubblica con una serie di panzane senza fondamento.
In prima persona - e poi con il giornale di cui sono editore - insieme a pochissimi altri giornalisti come Stefano Santangelo di Vice (che cito nel mio libro “Il lavoro trattato male”) mi sono dedicato a approfondire le dichiarazioni di quegli imprenditori che non solo apparivano ormai serialmente e sospettosamente con una strana ciclicità sui giornali e nelle trasmissioni televisive, ma soprattutto ho cercato le loro offerte di lavoro spesso assenti dai siti delle loro aziende, ma anche dalle varie piattaforme di incontro domanda-offerta.
Per non parlare dei siti istituzionali legati ai Centri per l’Impiego delle varie regioni, in cui si sente il gracchiare dei corvi nella totale solitudine del Deserto delle Offerte di Lavoro.
Com’è andata a finire lo vediamo tutti: offerte di lavoro improbabili, ricerca di personale con contratti a dir poco precari, candidati che registrano i colloqui di lavoro e li pubblicano on line e l’evidenza ormai sotto gli occhi di tutti: ci sono settori interi a partire dal turismo a finire alla logistica, la GDO e l’edilizia che vivono di precariato.
Questo lavoro di divulgazione costante (non solo il mio), ha fatto si che la “narrazione” del Reddito di Cittadinanza, così come tante altre (non ultima raffigurare statisticamente i rider come “studenti che arrotondano”) è utile proprio per cambiare la prospettiva dell’informazione sul lavoro, ma anche la cultura del lavoro stesso e per questo - torno al punto - è fondamentale che le nostre fonti, così come i nostri commenti, vengano depositati in luoghi di dibattito e confronto anziché alimentare la base clickbait di chi in fondo, del lavoro non gliene frega una mazza e si indigna per lo chef stellato ma poi all’ora di pranzo ordina il poke con Deliveroo.

Chef è l’anagramma di Fasc…?
Una fonte interessante in questa vicenda, a cui fare riferimento è Dissapore, testata di informazione specializzata sui temi legati al mondo del food che spesso si occupa di inchieste e di situazioni legate al settore.
Un articolo a firma di Luca Venturino racconta la situazione fino ad ieri (in cui il post risulterà poi cancellato, aggravando la situazione, perché ormai gli screenshot circolanti sono migliaia e hanno già preso la via dei social) ma soprattutto, il giornalista sgama altri post pubblicati da 5 anni a questa parte molto simili all’offerta di lavoro incriminata e risalenti al 2 febbraio e al 22 maggio del 2019, lasciando intendere che probabilmente nel mezzo ce ne fossero diversi altri opportunamente cancellati dopo la shitstorm di ieri.
“cercavo collaboratori onesti, con un’idea chiara della loro posizione all’interno della società, della brigata, che si comportino bene. Perché sono stufo di persone che mi fanno perdere tempo, si mettono in malattia, non svolgono le proprie, mansioni o bruciano due infornate di pesce al sale, vogliono essere pagati ma non lavorare. I diritti sono sacrosanti, ma ci sono anche i doveri”.
Paolo Cappuccio, intervistato ieri dal Corriere della Sera.
Nella disanima del personaggio, Dissapore fa notare - al di là del linguaggio - anche un paio di tatuaggi che lasciano spazio a poca immaginazione riguardo alle simpatie politiche dello chef stellato e anche rispetto alla stella; si fa notare che questa, quando uno chef lascia, rimane al ristorante e in questo caso il ristorante è lo Stube Hermitage a Madonna di Campiglio, la cui cucina oggi è guidata da un altro collega.
Come tutti i suicidi social (nell’ultimo mese su questo canale ne abbiamo parlato a lungo), anche gli chef non fanno specie a parte. E a quanto pare si sta allungando la lista dei ristoranti che hanno ospitato Cappuccio in cucina e si dissociano dalle sue parole e dai suoi toni.
Ci rimane un’intervista al Corriere della Sera un po’ imbarazzante in cui si dà la colpa dello scritto a chatGpt (che evidentemente ha già sostituito gli stagisti), dribbla il giornalista con un sempreverde “ho molti amici gay” e poco altro. Nello stile del Corriere della Sera, a cui oltretutto
rivendica di avergli fregato la notizia senza citarla.Come vada a finire questa storia, a questo punto non ci interessa più di tanto. Lasciamo la curiosità a quel genere di testate specializzate in cose, tipo chiedersi che fine abbia fatto Schettino e ai loro lettori.
Su questo canale io invito tutte e tutti a godervi sicuramente i miei toni provocatori, ma anche e soprattutto il punto di vista di chi “è dentro alle cose del lavoro” cercando di dare un punto di osservazione che non serva solo a pomparmi le endorfine, ma anche e soprattutto a guardare lo storytelling aziendale con occhi diversi.
Il punto è, caro Osvaldo, che queste metodologie di ricerca e selezione del personale sono all'ordine del giorno in certi settori, e che a volte emergono come pesci morti in un lago maleodorante soltanto perché qualche sveglione fa una dichiarazione pubblica come quella dello chef in questione.
Secondo me non c'è nessuna speranza di una soluzione culturale, perché certi ambienti sono così.
L'unica è sperare che almeno certi elementi spariscano dal settore e vadano a fare altro, ma ovviamente non accadrà.
Cosa può fare il consumatore?
In teoria può scegliere dove spendere i propri soldi e, se ritiene, spenderli soltanto dove questa cultura del lavoro tossica non c'è.
Ma è molto, molto difficile.
Grazie.