Le aziende non (ne) possono più (di D&I)
Quando la "diversity and inclusion" è solo una forma di comunicazione, è moda. Quando è solo una dichiarazione d'intenti, è ipocrisia che mette a rischio la meritocrazia.
Se ne parla già da dopo l’estate dello scorso anno.
Lo fa molto bene l’articolo di Wired che in questi giorni è stato “ripreso” (ma non citato) anche dal Post e da Forbes.
Non è mancato, naturalmente, su Linkedin chi si è scandalizzato e pensa che d’ora in avanti le aziende saranno di nuovo (di nuovo?) guidate da patriarchi pronti a relegare le donne a ruoli di veline, a escludere le comunità lgbtq+ e le ulteriori classificazioni e a confinare i disabili.
Anche l’interpretazione politica della vicenda è un po’ colabrodo, quando si ritiene che questo cambiamento di rotta sia dovuto all’imminente ritorno di Trump.
[Fermo restando il “voi che ne pensate?” di cui prima o poi farò un articolo in cui spiegherò queste modalità da “divulgatore all’americana” semplicemente irritanti] partiamo dal presupposto che le aziende citate nell’articolo hanno in realtà abbandonato una cosa che si chiama Corporate Equality Index (Cei), un sistema di valutazione ideato per certificare le aziende più inclusive nei confronti delle persone lgbtqia+. A idearlo è stata l’associazione Human Rights Campaign, la più grande organizzazione statunitense a difesa delle persone della comunità lgbtqia+. Si tratta anche, va detto, di un’associazione che recentemente si è spesso schierata a favore della candidata Kamala Harris.
Qui nasce l’equivoco doppio che ha spinto i giornali a scrivere che quelle aziende abbandoneranno programmi di D&I e che questo dipenda da motivi politici legati all’avvicinamento a Trump.
Improbabile, visto che storicamente la Human Rights Campaign ha sostenuto sia politici democratici sia politici repubblicani, in base alle loro idee, oggi è sicuramente nel mirino delle frange più estremiste del partito Repubblicano, e proprio il suo Corporate Equality Index è tra le prime vittime della svolta anti-Dei di alcune aziende.
Ma quali sono le politiche D&I di queste aziende?
Non ci sono tracce di politiche attive di D&I (“manifesti”, si. Ma pratiche precise basate su obiettivi e numeri, no.) all’interno di Ford, Jack Daniel’s o John Deer per fare alcuni di quei nomi. C’è invece una banalissima operazione di trucco e parrucco a cui si sottopongono anche tante aziende italiane che consiste in:
individuazione di un/una (quasi sempre unA che già fa sentire il puzzo di senso di colpa a cui dover rimediare) D&I Manager selezionato/a fra:
giovanissimi in odore di risorse umane,
senior che non si sa più cosa fargli fare,
pasionarie del femminismo da parcheggiare in un ruolo in cui possano capitalizzare tutte le loro energie ideando qualche decalogo colorato (che poi nessuno rispetta in fase di assunzione), qualche supporto a associazioni al femminile, attività di Corporate Branding ai convegni a tema.
Fine dell’impegno.
Per non parlare di quelle aziende che inseriscono la funzione direttamente nel marketing o che, come spiega precisamente Simona Cuomo, coordinatrice dell’Osservatorio Diversity&Inclusion della SDA Bocconi (che a sua volta ha seri problemi con la parità di genere):
in Italia la D&I è spesso molta teoria (nei discorsi pubblici, nelle dichiarazioni) e poca sostanza: scarseggiano le azioni concrete. Le aziende italiane, inoltre, tendono ad attivarsi principalmente negli ambiti in cui sono stati introdotti certificazioni o leggi da applicare: genere e disabilità.
Invito chiunque ad andare sui siti delle aziende per trovare qualsiasi tipo di dato che confermi le dichiarazioni di intenti della stragrande maggioranza delle aziende che si ritengono inclusive e che hanno un/una D&I Manager nel proprio organico.
Senza scomodare la cultura woke…
C’è un dato di fatto: dal bacio non consensuale di Biancaneve (mi trovo sorprendentemente a citare Wired più volte come fonte giornalistica!) alla sirenetta nera solo per fare un raffronto sui cartoni animati che è il campo di gioco più neutro che io possa immaginare, questo genere di intolleranza per la mancanza di uguaglianza di genere, nasce sacrosanta e finisce per prendere delle pieghe macchiettistiche, dove tutto diventa tema di patriarcato ma nulla di fatto cambia.
Perché in camera caritatis poi le aziende fanno esattamente come hanno sempre fatto e io al momento non ho ancora visto un piano operativo in cui in un’azienda si decidono le percentuali di uomini e donne che devono comporre un board, mentre sono precise le cifre delle aziende che preferiscono pagare le multe (fra l’altro minime) anzichè assumere invalidi, categorie protette, disabili.
Ma se anche si definisse un “piano assunzioni colorato”, sarebbe ancora una volta discriminatorio.
Il fatto che non esistano politiche concrete è anche comprensibile: possiamo mettere per iscritto che in un board aziendale il tot% deve essere composto da donne o da un genere non binario (per semplificare)? Certo che no.
Perché le aziende alla fine hanno bisogno di competenze e scegliere un candidato o una candidata in funzione alla quota da raggiungere significa discriminare la scelta più meritocratica, avvilendo chi per quella posizione concorreva con risultati e obiettivi al favore del “rispetto di una quota”.
E proprio mentre sto scrivendo queste parole, mi arriva un messaggio su Linkedin:
La parità di genere è automaticamente generazionale
Capisco chi ha la necessità di tenere alte le polemiche.
Ci sono Persone che grazie al tema dell’inclusione staccano fatture per consulenze, speech, libri e comparsate.
É importante che se ne parli, ma troppo spesso è una comunicazione che cerca lo scandalo.
E se non siamo capaci di dare una direzione a questo tema, facciamocene una ragione perché i 30enni iniziano a prendersi spazi importanti nelle aziende e la differenza la faranno loro, le nuove generazioni per le quali i colori, i generi, le nazionalità, le provenienze, le “seconde” e le “terze generazioni di immigrati” sono solo rumore di fondo. Per loro sono GIÁ tutti UGUALI.
Ed è l’unica speranza che abbiamo perché, fortunatamente, le aziende le fanno le Persone.
p.s.: un’ultima citazione merita il post di Cathy La Torre, attiva sulle tematiche di genere che fra le tante corbellerie lette in rete per captatio benevolentia e qualche click, l’ha detta giusta:
Secondo me il problema è nel modo in cui è stata concepita e applicata la DEI e credo serva maggiore autenticità, strumenti di misurazione efficaci e una visione strategica di lungo periodo. Quindi più sostanza, meno operazioni di facciata.
Con la "Slogan Rosa" hanno creato una serie di alibi a chi alla prima occasione utile non vede l'ora di dire "Ecco...Questo è Patriarcato" e al contempo una serie di corsie preferenziali esattamente antimeritocratiche, così come evidenziato nel tuo articolo.....Meno Slogan e Meno Ipocrisia farebbe bene a tutti. Io sono anni che lotto per ritrovare una collocazione dignitosa nel mondo del lavoro (dopo aver lavorato per 14 anni di seguito ) e ho dovuto confrontarmi con ragazzine appena assunte che mi hanno inveito contro perché si sentivano protette da chi le aveva inserite ....con una Arroganza mai vista prima
Continuo a fare la gavetta e non mi sarei mai sognato di rispondere in quel modo a nessuno ....
Ci si sente protetti/e dietro Slogan e questo, per chi ha la coscienza già abbondantemente macellata dona forza e legittima ulteriormente derive comportamentali